IL PARTITO CHE VORREI
Una delle domande che mi arrivano più spesso in questo periodo riguarda il così detto programma perfetto.
Ritengo che tale richiesta presenti molti problemi logici, in quanto non esiste un programma perfetto. Esistono le scelte personali e le proprie opinioni. Di conseguenza un partito non può oggettivamente presentare un programma perfetto.
Volendo quindi rispondere ironicamente a tale richiesta, qualche giorno fa, su facebook ho indicato alcuni temi che potevano essere oggetto di dibattito.
Quel post, ovviamente ironico, ci tengo a sottolineare, presentava alcune lacune. Cercando di argomentare meglio, qui sotto trovate alcuni punti meglio esposti.
1. Pensioni
Sarebbe opportuno ridurre il peso delle pensioni sul mondo del lavoro. Ad oggi le pensioni in essere vengono pagate con i contributi in essere oggi, e non esiste un sistema a capitalizzazione, così come lo intendono molti italiani. Oggi il sistema è basato sul principio della ripartizione ed è evidente che in un sistema di questo tipo il tutto può reggersi se e solo se esiste un rapporto sostenibile fra lavoratori e pensionati. Oggi tale rapporto, che potrebbe essere visto come patto intergenerazionale fra le diverse fasce della popolazione, è minato da promesse miopi fatte in modo scellerato.
INPS ha un deficit saldato dallo stato di 100 miliardi di euro.
Oltre a quei 100 miliardi, devi aggiungercene 210 prelevati attraverso i contributi sociali (33% per i lavoratori dipendenti, 25% per le partite IVA). Questo è uno dei valori più alti all’interno dell’UE, ed è svantaggioso in quanto spinge al rialzo il costo del lavoro, facendo perdere competitività alle aziende italiane e comprimendo anche le paghe dei lavoratori italiani. Questo è dannoso sia per i lavoratori marginali (donne, giovani, uomini poco istruiti sopra i 50), sia per la manodopera qualificata (che, specie in un paese di microimprese come il nostro, si ritroveranno con stipendi più bassi che altrove). E non è detto che effettivamente i contribuenti avranno importi pensionistici pari a quelli dei loro padri (secondo l’ultimo report della Ragioneria dello stato si dovrebbe passare da un tasso di sostituzione attorno al 77,6% ad uno del 64-65% circa).
L’elevato costo del lavoro ha anche effetti sulla spesa pubblica per i redditi da lavoro dipendente (basta andare a vedere i conti annuali delle amministrazioni pubbliche dell’Istat). Basti pensare come, a fronte di una retribuzione media lorda attorno ai 35k, il costo del lavoro si aggiri attorno ai 51k, con una spesa intorno al 10% del PIL. Non tutti sono contributi previdenziali, ci sono anche i contributi alla cassa-integrazione e il TFR, ma è chiaro che ciò ha effetti negativi sui conti pubblici, specialmente per settori come quello sanitario dove il costo del lavoro è spinto in alto.
In più noi abbiamo una spesa pubblica pensionistica al 16% del PIL, il secondo valore più alto nell’UE dopo quello greco.
Questo implica avere meno risorse da spendere per altri settori importanti (congedi parentali, asidi nido, sanità, istruzione, ricerca, infrastrutture), avere più tasse e avere più deficit (c’era uno studio di Itinerari Previdenziali che mostrava come i deficit dell’INPS cumulati dal 1980 ad oggi equivalessero a 2/3 del debito pubblico, quindi pure i 2/3 degli interessi sul debito in un certo senso).
Poi c’è tutto il discorso legato alla sostenibilità. Oggi abbiamo 16 milioni di pensionati e 23 milioni di dipendenti e autonomi.
Per garantire la sostenibilità del sistema (no trasferimenti) servirebbero 2,35 versanti per pensionato (dato un tasso di sostituzione del 77,6% per un dipendente pensionato e data un’aliquota contributiva del 33% per i dipendenti), mentre oggi abbiamo solo 1,45 contribuenti per pensionato. E non è detto che la situazione migliorerà, con il pensionamento della generazione X (800.000~1.000.000 per coorte, mentre oggi le nascite viaggiano attorno alle 400.000-450.000 – invito a vedere le tabelle su demo.istat.it per maggiori informazioni).
C’è anche da dire che, dati Istat alla mano, vi sono molti meno poveri tra gli over 65 che nel resto della popolazione (5% per gli over 65, la media nazionale è attorno al 9%)
È chiaro quindi che la spesa pensionistica vada assolutamente ridotta – a mio modo di vedere, andrebbe tagliata di una decina di punti, passando ad un sistema pensionistico a 3 pilastri, come quello dell’Olanda e della Danimarca, dove lo stato garantisce una pensione minima pari alla soglia di povertà (30% del reddito medio) e il resto è integrato con fondi pensione.
Purtroppo le pensioni sono state usate impropriamente per supplire alle carenze del nostro stato sociale (congedi parentali, asili nido, long term care, politiche attive del lavoro) e gli effetti li paghiamo tutt’oggi.
Risulta quindi fondamentale per la sostenibilità del sistema finanziario attuare una revisione di spesa che tenga conto di alcuni elementi:
- Chi percepisce una pensione sotto un certo importo, a titolo esemplificativo dalle 3 alle 8 volte la minima (nel momento in cui si scrive sono circa 500 euro), non dovrebbe subire alcuna rivalutazione;
Un partito serio, che volesse avanzare proposte serie, a mio personalissimo avviso dovrebbe partire da qui: pic.twitter.com/zpkYexXUr7
— Umberto Bertonelli (@drelegantia) June 13, 2022
- Onde evitare possibili problemi di carattere costituzione è fondamentale che si rispetti quanto emerso dalla sentenza n. 70/2015, seguendo quanto emerge da questa analisi: “La sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni”;
- Ogni euro risparmiato andrebbe quindi allocato per ridurre il costo del lavoro, questo avrebbe due effetti:
- l’effetto del giorno dopo si avrebbe sull’occupazione, a patto di ridurre sia i contributi in carico al datore di lavoro che al lavoratore, dando precedenza ai primi. Questo perché il netto in busta paga è fortemente condizionato dalla presenza di contributi in carico ad entrambi i soggetti. In particolare, per esemplificare il tutto, se ipotizziamo una RAL (Retribuzione Annua Lorda) di 100€, a questa vanno ad aggiungersi i contributi in carico al datore di lavoro. Dopodiché la stessa RAL viene usata come base imponibile per il calcolo dei contributi in carico al lavoratore. La differenza fra RAL e contributi in carico al lavoratore costituisce la base imponibile per il calcolo delle imposte (IRPEF). Risulta quindi evidente che un solo taglio dell’IRPEF, per quanto generoso non avrebbe effetti occupazionali stimabili nel breve, in quanto il costo per l’impresa non varierebbe. Anzi, potrebbe addirittura dare origine ad effetti regressivi e disparità fra chi è all’interno del mercato del lavoro e chi risulta all’esterno dello stesso.
- Nel breve-medio termine, essendo che il costo del lavoro si è ridotto, lo stato raccoglierebbe maggiore gettito lato IRPEF, in quanto la base imponibile dell’imposta risulterebbe maggiore rispetto alla condizione iniziale (RAL-Contributi di partenza<RAL-Contributi di arrivo). L’Irpef aggiuntivo derivante potrebbe essere utilizzato per rimodulare la stessa imposizione, in modo da mantenere costante il gettito per lo stato (in rapporto al PIL) e non dare origine ad una maggiore imposta.
- effetto medio-lungo termine: secondo molte stime il nostro sistema pensionistico rischia di diventare una vera e propria trappola sociale, capace di raggiungere in alcune analisi anche un peso circa del 20% sul PIL per lungo tempo. Una revisione della spesa pensionistica è quindi fondamentale per non ledere, o quanto meno ridurre i dati, di scelte poco lungimiranti fatte in passato.
2. Lavoro
Il mercato del lavoro italiano presenta alcune problematiche che solo in parte verrebbero risolte dal punto precedente. Per questo si rende necessario operare a livello sistemico per garantire protezione a chi è all’interno del mondo del lavoro.
A tale proposito si ritiene necessario attuare una revisione dei CCNL, tali per cui l’ultimo livello per compenso, sia adeguato al 60% dei salari mediani, così come indicato dall’Unione Europea.